Tennis blasfemo?

Analizziamo, alla luce dell'episodio che ha recentemente coinvolto il tennista Israeliano Dudi Sela, il sempre delicato rapporto fra tennis e religione, nodo che nel corso degli ultimi anni difficilmente è riuscito a sciogliersi in maniera definitiva.

Dietro ogni blasfemo c’è un giardino incantato, diceva De Andrè nella più blasfema delle sue canzoni. Di certo il grande cantastorie di Genova non si riferiva al mondo del tennis, ma anche il giardino incantato del tennis si rivela di tanto in tanto blasfemo. Il tennis è innanzitutto, oltre che una nobile arte, uno spettacolo televisivo, e spesso ciò conduce gli organizzatori dei tornei a non poter essere nelle condizioni di soddisfare le necessità dei tennisti in gara, di qualunque natura esse siano, qualora non sia possibile conciliarle con quelle che invece sono le necessità dell’apparato organizzativo del torneo stesso.

Cosa succede però quando queste necessità sono di natura religiosa? Succede che il tennis rischia di diventare blasfemo.
Recentemente infatti si è verificato un caso in cui il tennista di turno si è di fatto trovato costretto, al fine di ottemperare ai propri obblighi religiosi, e rinunciare agli impegni tennistici in calendario. E’ successo qualcosa di simile proprio nell’ultimo torneo ATP 250, quello tenutosi a Chengdu: il tennista in questione è Dudi Sela, giocatore di origine Israeliana che già in passato si era distinto per la sua ammirevole dedizione ai dettami dell’ebraismo; il piccolo tennista della Valle di Hula si è infatti trovato costretto a ritirarsi durante il suo match di quarti di finale, che lo vedeva opposto all’ucraino Dolgopolov, match nel quale fra l’altro Dudi si trovava in vantaggio per 1-0 nel terzo set (e che avrebbe pertanto potuto ancora vincere), proprio per questioni religiose. Prolungando oltre le attese la propria permanenza in campo, Dudi si è difatti ritrovato a dover giocare in concomitanza con una delle ricorrenze più sentite dal mondo ebraico, la festività dello Yom Kippur, le cui restrizioni non si possono conciliare con l’esercizio dell’attività sportiva in cui in quel momento Sela era impegnato. Il tennista israeliano ha quindi deciso, in modo condivisibile o meno, di ritirarsi a match in corso, rinunciando alla per lui cospicua somma del prize money ed a 90 punti che certo gli avrebbero fatto comodo. Scelta personale direte voi, che colpe ne ha il tennis? Certo nessuno ha costretto Dudi Sela a scendere in campo, ma è altrettanto doveroso riportare come l’israeliano avesse, conscio dei propri impegni di natura religiosa, anticipatamente chiesto agli organizzatori del torneo di programmare il suo match di quarti di finale entro le ore 14, in modo tale da evitare di incorrere nella scomoda coincidenza di impegni di cui sopra. Sela è però dovuto scendere in campo alle ore 16, e non è stato di conseguenza in grado di portare a compimento il match.

Un problema sempre di natura religiosa aveva già determinato un ritiro in altri due casi: nel 2013 il tunisino Malek Jaziri si era ritirato durante il torneo challenger di Tashkent così da evitare di scontrarsi al turno successivo con l’israeliano Amir Weintraub; due anni dopo sempre Jaziri fu protagonista di un episodio simile, quando si ritirò a partita in corso durante il torneo di Montpellier, ancora una volta con l’obiettivo di evitare l’incrocio con un collega israeliano, in quel caso proprio Dudi Sela; ad onor di cronaca bisogna però sottolineare come la vicenda in questione fosse probabilmente da ricondurre a questioni di natura politica, questioni che avevano determinato una serie di pressioni esercitate su Jaziri dalla federazione tunisina stessa.

Quello che vede contrapposti sport e religione è un conflitto di interessi apparentemente irrisolvibile, uno scontro tra due mondi apparentemente inconciliabili, quello del sacro e quello dello sport, un rapporto da sempre tormentato e conflittuale che raramente si è disteso in un compromesso accettabile da entrambe le parti in causa, finendo nella maggior parte dei casi per risolversi nella rinuncia da parte dello sportivo, il cui credo religioso non riesce a conciliarsi con l’esercizio dell’attività sportiva.

Un caso opposto in tal senso può essere considerato quello di Ons Jabeur, tennista tunisina attualmente al numero 83 delle classifiche mondiali, in grado di raggiungere nell’ultima edizione del Roland Garros il terzo turno, sconfiggendo Dominika Ciblukova; in un’intervista rilasciata dalla Jabeur qualche mese fa la tunisina affermava, in riferimento alla pratica del Ramadan, uno dei cinque pilastri della religione musulmana:“E’ dura pensare al Ramadan. Non posso mangiare o bere, ma quando avrò tempo, magari prima del prossimo Ramadan, lo farò sicuramente ,anche se ovviamente non per 30 giorni di fila”. Ancora una volta il tutto si è risolto in una rinuncia, in tal caso a danno però dell’impegno religioso.

Sarebbe altrimenti auspicabile il delinearsi di una situazione tale per cui nessuno sportivo debba essere posto nella condizione di dover scegliere se ottemperare ai propri doveri professionali o a quelli sportivi, in un rapporto di rispetto reciproco che andrebbe a ricalcare quello che si può osservare in molti altri ambiti della vita sociale coi quali la sfera religiosa si confronta quotidianamente.

Avverrà mai tale conciliazione? Oppure il mondo oramai laicizzato frutto della razionalizzazione del sentire non lascerà alcuno spazio alla manifestazione del credo religioso?

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