Dallas, 21 giugno 1969. È il solstizio d’estate, il giorno in cui il sole raggiunge il suo punto di declinazione massima, quando a soli 34 anni si spegne una stella che, come una cometa sfolgorante, ha attraversato il Circuito tennistico per alcune stagioni, diventando nel 1953 la prima donna, seppur poco più che un’adolescente, a realizzare il Grande Slam: Maureen Catherine Connolly Brinker. Un destino spietato ha scandito la breve vita di Maureen Connolly, nata a San Diego il 17 settembre del 1934, il cui padre, un marinaio, si è dato alla fuga quando aveva appena quattro anni. Della sua crescita se ne occupa la madre, organista della chiesa di San Diego, che riversa nell’unica figlia tutte quelle ambizioni che non è riuscita ad agguantare per se’. Maureen è ancora una bambina quando viene iniziata alla danza, al canto e al disegno; discipline che segue svogliatamente, giusto per assecondare la madre, mentre lei è animata da una sola passione: l’equitazione. Peccato solo per il costo delle lezioni sia troppo elevato da sostenere per sua madre.
Il tennis entra nella vita di Maureen per caso, o forse per destino. A poco più di cento metri da casa sua ci sono infatti tre campi in cemento ed un pomeriggio Maureen si ferma a guardare l’allenamento di un certo Gene Garret; gli fa qualche domanda, lui le fornisce risposte esaurienti e, a dieci anni, si ritrova con in mano una racchetta; seppure non nella sinistra con cui scrive e disegna, bensì nella destra dato che, come afferma il suo primo maestro Wilbur Folson «non ci sono campionesse mancine». È però una maestra di ballo a riconoscere che nel cuore della piccola Maureen arde sì un sacro fuoco, ma non per i passi di danza, bensì per il tennis. Per questo fa in modo che quella dodicenne dagli occhi azzurri conosca l’eccellenza del settore, l’allenatrice più brava del mondo: Eleanor “Teach” Tennant. Tra maestra ed allieva l’intesa è istantanea: alla Tennant non era mai capitato di allenare una ragazzina tanto determinata, ubbidiente e, dotata di una resistenza atletica che le permette di sostenere ore e ore di allenamento. A tredici anni Maureen disputa i primi tornei, a quattordici ha già vinto 56 gare consecutive conquistando tra l’altro il titolo di Campionessa Studentesca, a quindici fa suoi lo U.S Open under 18.
La prima parola d’ordine per la Connolly è “concentrazione”. A chi le chiede da dove attinga tanta calma e sangue freddo lei risponde: «Quando sono sul campo vedo solo la mia avversaria. Se facessero esplodere delle cariche di dinamite sul campo vicino io non me ne accorgerei nemmeno». E’ per via di questo suo temperamento che un cronista di San Diego, Nelson Fisher, le appiccica addosso il nomignolo di “Little Mo”; dal nome di una carrozzata irta di cannoni, la celeberrima Missouri.
Con la solita caparbietà, l’anno dopo Maureen atterra a Wimbledon con un forte dolore alla spalla e, per la prima volta, si ribella a un’imposizione della Tennant che le consiglia di ritirarsi. La giovane fuoriclasse si oppone, partecipa e conquista lo Slam londinese. Difeso il titolo allo U.S Open, “Little Mo” compie una scelta difficile e rischiosa: decide di affidarsi al capitano della nazionale australiana: Harry Hopman. È il 1953 quando, appena diciannovenne, la Connolly sconfigge nella finale degli Australian Open Julie Sampson e in quelle del Roland Garros, di Wimbledon e degli US Open la compatriota Doris Hart; entrando nella storia del tennis come la prima donna capace di realizzare il Grande Slam.
È allora che Jack Kramer le offre 50.000$ e le propone di passare al professionismo. “Little Mo” però si prende un anno di tempo per pensarci. Nel 1954 la fuoriclasse di San Diego non partecipa agli Australian Open, difende i titoli sia al Roland Garros che a Wimbledon ma il 20 luglio un camion la investe mentre è in sella ad un cavallo regalatole dai suoi concittadini. I 165.000$ ottenuti come indennizzo dalla società proprietaria dell’autocarro non possono ripagare quanto Maureen Connolly perde a causa dell’incidente. Le fratture riportate alla gamba destra la costringono ad annunciare, nel febbraio del 1955, la prematura fine della sua carriera.
E così, mentre Doris Hart iscrive il suo nome nell’albo d’oro dell’U.S Open, la vita di quella ragazzina capace di dominare la scena per una manciata di stagioni cambia inesorabilmente. E non solo la sua vita, anche Maureen cambia: «Ho sempre pensato che il mio destino fosse un campo da tennis. Solo ora ne colgo il lato oscuro, solo adesso riconosco in quel campo un giungla che ha fatto di me una persona chiusa. Rivedendomi con gli occhi di adesso capisco che non ero altro che una strana ragazzina armata di odio, paura e una racchetta d’oro».
Nel giugno 1955 si sposa con Norman Brinker, un membro della nazionale equestre che nel 1952 aveva difeso i colori degli Stati Uniti in occasione delle Olimpiadi di Helsinki. Insieme si stabiliscono a Dallas, hanno due figlie e, per promuovere il tennis juniores, istituiscono il “Maureen Connolly Brinker Foundation“. Seppure saltuariamente continua ad avere a che fare in prima persona con il tennis, ora come corrispondente per alcuni giornali statunitensi e inglesi, ora come allenatrice della squadra USA nella Coppa Wightman. Fino all’ennesimo triste capitolo: nel 1966 le viene diagnosticato un tumore e, dopo una lunga battaglia muore a soli 34 anni. Ovviamente il tennis non la dimentica e la inserisce nel 1968 nell’International Tennis Hall of Fame.
Non la dimentica nemmeno Doris Hart, la grande rivale scomparsa nel maggio di quest’anno, più adulta di una decina d’anni e che non si è mai stancata di ripetere come l’astio tra le due, scaturito da una definizione «brutta mocciosa» che lei avrebbe rivolto a “Little Mo”, fosse in realtà un’invenzione della Tennant, per rendere la sua pupilla più motivata, più agguerrita. Chissà se si sono mai veramente chiarite queste due grandi dive degli anni ’50; due immense campionesse divise da un destino beffardo, che le ha innalzate nell’Olimpo del tennis, che le ha fatte scontrare per poi separarle bruscamente. Un destino che da loro ha preteso pagine di storia, vietando però ad entrambe un vero lieto fine.