Margaret Smith Court, la forza nei primati

Con 24 titoli del Grande Slam in singolare e 64 compresi i doppi Margaret Court Smith è la giocatrice più vincente di tutti i tempi. Mai ossessionata dal tennis, è diventata ministro della fede; al che sono iniziate le polemiche al punto da mettere in discussione la sua grandezza.

«Per la forza assoluta di prestazioni e conseguimenti non è mai esistita una tennista sua pari». Con queste parole nel luglio del 1979 l’International Tennis Hall of Fame apre i cancelli del paradiso a Margaret Smith Court che dall’alto dei suoi 24 titoli del Grande Slam in singolare, addirittura 64 se si considera anche i titoli di specialità nei doppi, è tuttora la tennista più vincente di tutti tempi per quanto riguarda i quattro Major. Eppure Margaret, nata il 16 luglio del 1942 ad Albury, paesone di circa 40.000 abitanti situato sulla Hume Highway, e soprattutto nata Smith, dato che Court ci sarebbe divenuta venticinque anni dopo, in seguito al matrimonio con il signor Barry Court, in campo pare non abbia mai trasmesso sensazioni particolarmente paradisiache in quanto il suo tennis era esasperatamente muscolare, privo di tocchi soffici, non troppo predisposto a qualsiasi genere di inventiva, anzi esasperatamente pratico persino nella sua spettacolarità.

Ultima dei quattro figli di Lawrence e Catherine Smith, ha preso una racchetta in mano a otto anni e ne ha appena diciassette quando ripone in bacheca il primo di 11 titoli all’Australian Open, 7 dei quali consecutivi e senza dubbio sarebbero stati otto se nel 1967 non avesse deciso di ritirarsi per convolare a nozze e rendere immortale il cognome del marito. Ma facciamo un passo indietro perché la storia del tennis scivola tra le dite dell’australiana nel 1962, stagione in cui si aggiudica tre delle quattro prove del Grande Slam per capitombolare nel suo match d’esordio a Wimbledon, da testa di serie n.1, quando viene sorpresa e sconfitta dalla semi-sconosciuta Billie Jean Moffitt, destinata a cambiare abito come signora King nonostante la sua omosessualità, e soprattutto a divenire sua acerrima rivale di battaglie dentro e fuori al rettangolo di gioco.

Per una manciata di stagioni di nemici veri Margaret ne ha comunque pochi e sono perlopiù saltuari. Nel 1963 è la prima donna australiana a vincere Wimbledon e insieme a Ken Fletcher si prende il titolo di unica coppia capace di realizzare il Grande Slam nella specialità di misto. A procurarle un dolore nel 1965 è ironia della sorte la sua compagna di doppio e connazionale Lesley Turner che battendola al Roland Garros la costringe ad arrivare per la seconda volta a un tassello dal Grande Slam. Una fitta al cuore certamente infinitesimale al cospetto dell’essere spazzata via da Billie Jean King nella finale del suo Australian Open nel 1968, anno in cui si sarebbe riaffacciata sul circuito senza però mai riuscire a dettar legge. Diktat che Margaret torna ad imporre nel 1969 con l’esclusione di Wimbledon. Una sorta di rampa di lancio verso il Grande Slam afferrato al quarto tentativo, nel 1970, sconfiggendo Kerry Melville Reid nella finale dell’Australian Open, Helga Niessen Masthoff al Roland Garros, Billie Jean King a Wimbledon, e Rosemary Casals all’U.S Open.

Entrata nella leggenda, Margaret Court è talmente fuori dall’ordinario dal riuscire a far conciliare tennis e famiglia. Nel 1971 perde la finale di Wimbledon contro Evonne Goolagong Cawley, già incinta del suo primo figlio, Daniel, che sarebbe nato nel marzo del 1972. A fine agosto dello stesso anno è già pronta a tornare in campo in occasione dell’U.S Open, dove arriva a spingersi fino alla semifinale finché sbatte in Billie Jean King. Nel 1973 a impedire un possibilissimo Grande Slam bis è Chris Evert che la supera nella semifinale di Wimbledon in una stagione che le avrebbe garantito l’Australian Open n.11, il Roland Garros n.5 e l’U.S Open n.5, mentre alla fine della fiera ai Championships si sarebbe dovuta accontentare di 3 allori.

Nel 1974 nasce la sua secondogenita, Marika, ma Court non depone le armi e gli almanacchi del tennis registrano ancora uno Slam a Wimbledon nel 1975 in doppio insieme a Marty Riessen e all’U.S Open 1975 nel femminile in coppia con Virginia Wade. Ed è con questi sigilli che termina l’era Court; 64 titoli complessivi del Grande Slam conquistati su 85 finali, seconda regina del Grande Slam dopo la sfortunata Maureen Connolly nel 1953 e prima di Steffi Graf nel 1988, l’unica giocatrice ad aver vinto i quattro Slam per quanto riguarda singolare e doppi almeno due volte, nonché sola nell’essere riuscita a vincere queste dodici prove prima dell’inizio dell’era Open e nell’aver ripetuto l’impresa dopo l’inizio dell’era Open.

In base ai ranking curati dal London Daily Telegraph, Margaret Court è stata al vertice della classifica mondiale nel 1962, 1963, 1964, 1965, 1969 e 1970 per quindi essere n.1 assoluta nel 1973, quando iniziarono a essere prodotte le classifiche ufficiali della Women’s Tennis Association. Per dovere di cronaca, l’ultimo bagliore Margaret lo emana nel 1977, ormai  appagata trentacinquenne, quando vince l’ultimo incontro di singolo della sua carriera, sconfiggendo Greer Stevens 5-7 7-6 6-3 al terzo turno del torneo Virginia Slims di Detroit. Saputo di essere in attesa del suo terzo figlio, Margaret decide di non disputare il quarto di finale contro Françoise Dürr.

Se il tennis per Margaret non è forse mai stato più di un lavoro per il quale nutriva una sana passione, nel tempo la ferrea educazione cattolico-pentacostale le avrebbe consegnato in dono qualche piccola ossessione. Nel 1983 ottiene la qualificazione teologica e inizia un percorso che nel 1991 le consente di diventare ministro della fede. Un cammino che si intreccia con quello imprenditoriale in quanto da lì a poco viene fondata la Margaret Court Ministries Inc, società con il compito di diffondere il Vangelo e di organizzare raduni salvifici e miracolosi. Nel 1995 il progetto si amplifica con la creazione del Victory Life Centre, una chiesa pentecostale da lei gestita, che conta sin dagli albori di un certo seguito, rinfrancata da trasmissioni televisive degne dei predicatori yankee più in auge.

Decisamente conservatrice e poco incline alle tendenze di ampie vedute, l’aspetto che più sta a cuore alla sacerdotessa Margaret e al suo esercito riguarda tutto che che ruota intorno al variopinto mondo omosessuale. In particolare modo ha il dente avvelenato nei confronti delle nozze gay che definisce un «abominio» in quanto Dio consacrerebbe solo «le unioni tra uomo e donna» Chissà perché, a essere maggiormente ferito dalle opinioni dell’arcigna e ancor più bigotta aussie è proprio il mondo del tennis.

Siccome per quanto se ne dica il coming out non è poi così moda, di primo acchito la maggior parte delle giocatrici si fanno gli affari loro, mentre Martina Navratilova e Billie Jean King non la prendono bene e iniziano ad attaccarla con la stessa pedanteria con cui l’ormai ultra-settantenne persevera nella sua missione. Ne consegue una bagarre degna del peggior talk show con alcune nuove leve che, spalleggiate da King e Navratilova, arrivano a pretendere che venga cambiato il nome all’arena dedicata a Margaret Court nella sua Melbourne.

Tra botte e risposte, l’una non cambia opinione sul mondo delle altre e viceversa. Non potrebbe essere altrimenti, così come dovrebbe essere scontato il rispetto reciproco, ma soprattuto la capacità di separare la dimensione tennis da quella concettuale, riconoscendo tutto sommato all’esasperante Court il coraggio di essere andata lei per prima contro corrente esponendo il fianco a critiche che si sono paradossalmente ripiegate sulla sua indiscutibile grandezza sportiva; ossia in un ambito, quello, in cui nessuno dovrebbe mai osare darle torto.

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