Ode a Carla Suarez Navarro, l’alata creatura di Baudelaire

Carla Suarez Navarro non sarà mai una vincente. Eppure, è lei una delle poche che, umilmente, porta avanti quel poco che rimane della Bellezza nel tennis. E ricorda una poesia di Baudelaire.

“Ses ailes de géant l’empêchent de marcher” (C. B.)

Carla Suarez Navarro oggi ha perso una partita che poteva vincere. Avanti 5 a 2 nel primo e 4 a 1 nel terzo, li ha persi entrambi. Un po’ per meriti della Bouchard – soprattutto nel parziale conclusivo, dove a tratti era ingiocabile – in parte per la sua debole psiche.

Suarez Navarro è nata e cresciuta a Las Palmas, nelle lontane Canarie, dove per la prima volta ha impugnato una racchetta. Grazie al suo talento, sia pure ancora grezzo, è stata notata e poco più che ragazzina ha lasciato l’isola madre e ha iniziato ad allenarsi in Spagna, nel 2006,  presso la Pro-Ab Team Tennis Academy. Tutto il resto è storia nota: nel 2008, neppure ventenne, raggiunge i quarti di finale al Roland Garros, perdendo solo da Jelena Jankovic. Ha ripetuto lo stesso risultato in uno Slam agli Australian Open 2009 e poi, dopo alcuni anni di magra, lo scorso anno, agli Us Open; infine qui, di nuovo, al Roland Garros.

“Lei ha già fatto una semifinale Slam, io no” aveva dichiarato Navarro in conferenza stampa prevedendo da parte sua la tensione e la fragilità mentale che spesso la contraddistingue. ‘Lei’ sta per Eugènie Bouchard, 20 anni appena: bella, raggiante e idolatrata dai fan, la canadese è quanto più diverso possa esistere da ‘Carlita’; sia esteticamente (come è evidente al primo sguardo), sia per quanto riguarda gli stili di gioco. Da una parte il tennis di scuola americana di buon servizio e solidi colpi da fondo, dall’altra il più fragile e liquido tennis della Navarro, impreziosito da quel battito d’ali di libellula che è il rovescio a una mano, il più bello di tutto il circuito. Anche dal punto di vista mentale c’è un abisso: Bouchard, sin dalla tenera età di 5 anni discepola all’Academy di Nick Bollettieri, assemblata, cresciuta e costruita fin da subito per diventare una super-campionessa trionfatrice negli Slam e corteggiata da mucchi di sponsor; una mentalità serena e vincente, la stessa della vecchia amica Masha. Gli piacciono le feste, i selfie, i ragazzi, Justin Bieber e il divertimento. Quanto più differente è la piccola Carla, cresciuta in un’isoletta sperduta e catapultata in Spagna, dove all’inizio faticava ad esprimersi in spagnolo (aveva sempre parlato il dialetto del suo paese natale)  e poi in giro per il mondo; un atteggiamento debole e prestazioni altalenanti, che le hanno spesso negato partite già vinte.
Come da tipico copione di un film hollywoodiano, alla fine l’ha spuntata la “protagonista”, in questo caso la canadese, con il punteggio di 7-6(4) 2-6 7-5, dopo aver rischiato seriamente di perdere il match.

Ci sarebbe molto piaciuto veder vincere, per una volta, la sgraziata Carlita; vedere lei, per una volta, abbagliata dalle luci effimere dei riflettori. Perché è lei una delle poche che, umilmente, porta avanti quel poco che rimane della Bellezza nel tennis. Lei, bocca da paperotto, camminata goffa, le piccole efelidi e gli occhi tristi a metà strada tra la Gelsomina de La Strada di Fellini e l’orante Oliver Twist che chiede il bis della sua razione di cibo all’inflessibile cuoca del collegio.
Una che quando passeggia tra i campi di allenamento del Foro Italico nessuno le chiede l’autografo, oppure una fotografia.
La sua vita è completamente votata al tennis, ma neppure in quello Carla è destinata a raggiungere grossi risultati; la penalizzano i suoi colpi poco potenti e la sua testa ballerina, che spiega anche il fatto che, in tutti questi anni, abbia vinto un solo torneo (tre mesi fa a Oeiras, contro Svetlana Kuznetsova) a fronte di cinque finali perse.
Probabilmente è così: Carla Suarez Navarro rimarrà sempre una mezza perdente.

E allora, perché ci piace così tanto? Ma non lo vedete: appena il giudice di sedia dà il via al gioco, lei inizia a volteggiare nel campo. Le sue gambe magre, prima un po’ ridicole nell’incedere, ora volteggiano come impegnate in complessi passi di danza. La sua mano destra, poi, si flette in un’elegante apertura del dritto, per poi piegarsi e impattare la pallina con un gesto così fluido e leggero da far supporre che lei sarebbe in grado di colpire, senza distruggerla, anche una bolla di sapone.
E poi il rovescio, sontuoso e commovente. Come una farfalla che esce pian piano dallo stato di crisalide, libera la sua ala con eleganza e insieme con precisione, come se fosse un cacciatore incaricato di sparare dritto nel cuore di un pettirosso.
La metamorfosi è avvenuta. Vince, perde, ma rimane bellissima e incanta gli occhi di chi la guarda, prima di uscire dal rettangolo di gioco e ritornare la solita ragazza ordinaria e un po’ sgraziata.

Non è gentile scomodare i grandi del passato, ma per una volta ci sentiamo di farlo. Charles Baudelaire nel 1857 scrisse Le Fleurs du Mal, una delle raccolte di poesie più belle di tutti i tempi. Tra le tante, quella che mi è rimasta sempre cara si chiama L’Albatros.
Il componimento racconta di alcuni marinai che, per scacciare la noia del lungo viaggio nel mare aperto, prendevano in giro l’incedere goffo e incerto degli albatri sul ponte della nave. Perché, scrive il Poeta, le ali troppo grandi impediscono loro di camminare. Ma, una volta spiccato il volo, tutti gli uomini non possono che ammirarli dal basso e vederli salire verso la volta del cielo. Lo stesso vale per i Poeti.

Se ora fosse in vita (e se si fosse interessato di tennis), il nostro Charles forse, magari in un fugace momento sospeso tra il serio e il faceto, avrebbe pensato proprio alla Suarez Navarro come metafora umana di quei grandi e incompresi viaggiatori alati.

L’Albatro

Spesso, per divertirsi, gli uomini d’equipaggio 
Catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari, 
Che seguono, indolenti compagni di vïaggio, 
Il vascello che va sopra gli abissi amari. 

E li hanno appena posti sul ponte della nave 
Che, inetti e vergognosi, questi re dell’azzurro 
Pietosamente calano le grandi ali bianche, 
Come dei remi inerti, accanto ai loro fianchi. 

Com’è goffo e maldestro, l’alato viaggiatore! 
Lui, prima così bello, com’è comico e brutto! 
Qualcuno, con la pipa, gli solletica il becco, 
L’altro, arrancando, mima l’infermo che volava! 

Il Poeta assomiglia al principe dei nembi 
Che abita la tempesta e ride dell’arciere; 
Ma esule sulla terra, al centro degli scherni, 
Per le ali di gigante non riesce a camminare.

L’Albatros

Souvent, pour s’amuser, les hommes d’équipage
Prennent des albatros, vastes oiseaux des mers,
Qui suivent, indolents compagnons de voyage,
Le navire glissant sur les gouffres amers.

À peine les ont-ils déposés sur les planches,
Que ces rois de l’azur, maladroits et honteux,
Laissent piteusement leurs grandes ailes blanches
Comme des avirons traîner à côté d’eux.

Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule!
Lui, naguère si beau, qu’il est comique et laid!
L’un agace son bec avec un brûle-gueule,
L’autre mime, en boitant, l’infirme qui volait!

Le Poète est semblable au prince des nuées
Qui hante la tempête et se rit de l’archer;
Exilé sur le sol au milieu des huées,
Ses ailes de géant l’empêchent de marcher.

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