Don Budge, ritratto in bianco e nero di un Grande Slam

105 anni fa nasceva il magico tennista americano, il primo uomo della storia ad aggiudicarsi quattro Major nello stesso anno.

Ferve il dibattito sulla ripresa del circuito, vittima del paradosso che rende questo sport – in teoria etereo, privo di contatti e di urla sguaiate con relative goccioline di saliva e invece nella pratica schiavo della sua stessa globalità – il più complicato in assoluto da riorganizzare visti i complessi raduni di atleti ed entourage provenienti da ogni lato del pianeta. Intanto noi inganniamo l’attesa destreggiandoci fra dubbie esternazioni, pessime notizie e soprattutto una nuova e folgorante presenza dei tempi che furono. Se c’è un lato positivo di questo stop forzato, per noi malati di sport, dipendenti e assuefatti, voraci di match e capaci di ingurgitare al bisogno persino l’ultimo dei Challenger – ché un po’ di poesia si trova ovunque – è quello di aver dato una nuova dimensione al passato. Prima lo vedevamo come un orpello, un esercizio di nostalgia, il re senza poteri di una blanda monarchia costituzionale invece ora, superati i sudori freddi e le scalmane delle prime crisi d’astinenza, abbiamo scoperto un passato più vicino e vivo che mai, abbiamo restituito ai bei tempi andati la nobile funzione delle radici: ben nascoste nelle viscere del terreno, non solo assorbono per noi nutrienti vitali, ma ci tengono fisicamente in piedi. Bene, in quest’ottica possiamo permetterci di tirare fuori l’album dei ricordi, rigorosamente in bianco e nero, per provare a rivivere ciò che in realtà non abbiamo visto con i nostri occhi: un Grande Slam in piena regola. No, non stiamo parlando del mitico Rod Laver, ma del mitologico Don Budge, che oggi compierebbe 105 anni se fosse ancora in giro dalle nostre parti. Probabilmente il suo rovescio tremerebbe un po’ per l’età, ma darebbe ugualmente lezione di stile a tutti.

Gli anni di grazia precedono di poco la seconda guerra mondiale, in un mondo teso e irrequieto. Nel 1937 Don si scalda portando a casa Wimbledon e Us Open – entrambi contro il barone Von Cramm – ma è nella stagione successiva che lo attende l’impresa. Nel gennaio australiano abbatte in finale Bromwich, futuro vincitore. L’edizione del Roland Garros presenta molte defezioni e il più insidioso avversario è un virus intestinale o un’intossicazione alimentare che gli provoca qualche problema, ma alla fine Don riesce a superare Roderick Menzel diventando detentore di tutti gli Slam a cavallo tra due annate. A Wimbledon sono assenti Fred Perry e il solito Von Cramm: nessuno può opporsi allo strapotere dell’americano, che non lascia per strada neanche un set e fa suo il trofeo con autorità rifilando un 6-1, 6-0, 6-3 a Bunny Austin in finale. Dopo l’estate, sull’ultimo atto, prova a mettersi in mezzo persino un uragano che travolge Long Island con onde che superano i dieci metri e vento a duecento chilometri orari. L’Us Open è costretto a fermarsi, ma alla ripresa Don Budge è ancora lì, pronto a guadagnarsi la finale e a chiudere il cerchio contro il connazionale e amico Gene Malko, con cui condivideva la grande passione per il jazz: sei Major consecutivi e, quel che più conta, quattro nello stesso anno. Il primo uomo a riuscirci, raggiunto poi soltanto da Rod Laver fino a oggi. Per non saper né leggere né scrivere, negli ultimi due tornei Don si aggiudica anche i trofei del doppio e del doppio misto in coppia rispettivamente con Gene Malko e Alice Marble.

La sfida più epica della sua carriera, però, si è consumata l’anno precedente in coppa Davis, con il barone Gottfried Von Cramm dall’altro lato della rete. Elegante, nobile, bello e tormentato, un po’ come il suo tennis, il tedesco è inutilmente corteggiato per anni dal regime nazista che però si rifiuta di sposare e rappresentare, finendo poi anche un anno in carcere con l’accusa di omosessualità. Si mormora di una telefonata del Führer in persona prima di questa partita. Vero o presunto che sia questo dettaglio – che in ogni caso aggiunge pathos alla storia -, la pressione si fa sentire sul barone che prima gioca divinamente e si porta in vantaggio due set a zero, poi subisce la prepotente rimonta di Don Budge, che impatta il conto dei set. Nel quinto parziale è avanti di nuovo il tedesco 4-1 e di nuovo Don risale fino al 7-6 chiudendo poi al quinto matchpoint con un dritto che sbatte letteralmente e metaforicamente fuori dal campo il suo avversario proteso in un inutile tuffo. A detta di molti, protagonisti inclusi, una delle più belle partite di sempre.

E pensare che il giovane sognava di giocare a baseball o basket e soltanto a quindici anni, nel 1930, si lascia convincere dal fratello a provare questo strano sport con la racchetta: cinque anni più tardi è a Wimbledon a giocarsi la semifinale. Questo ragazzo nato in California, figlio di un ex giocatore dei Glasgow Rangers costretto ad immigrare anche per motivi di salute, rosso di capelli e allampanato – come il nostro Sinner, speriamo sia un buon viatico – abbinava al famoso rovescio elegante un servizio potente che lo metteva spesso in condizione di controllare lo scambio. Ma più di tutto era l’agonismo a renderlo speciale: una corrente elettrica nascosta dall’aplomb quasi imperturbabile che celava una vera e propria ossessione per la vittoria. Dal 1939 Don passa al circuito professionistico, il che gli preclude la partecipazione ai tornei dello Slam, riservati ai dilettanti. Oltretutto nel 1942 parte per la Seconda Guerra Mondiale e l’anno seguente riporta uno strappo muscolare alla spalla che condizionerà il suo gioco anche in seguito, il che non gli impedisce di continuare fino al 1954 e di tornare in campo nell’era Open, vincendo il titolo senior del 1973 a Wimbledon in coppia con Frank Sedgam. La parabola terrena di Don Budge finisce nel gennaio 2000, a 84 anni, anche a seguito di un incidente stradale avuto alla fine del 1999. Adesso fa parte delle radici che ci tengono in piedi e ci sembra giusto ricordarlo così, con quel misto di riserbo e spensieratezza tipico di chi non pone limiti alla propria immaginazione: Wimbledon 1935, la Regina consorte Mary fa il suo ingresso in tribuna e tutti, compreso l’avversario – Von Cramm, tanto per cambiare -, le rendono omaggio con l’inchino richiesto dall’etichetta; Don Budge, che per un istante non si accorge di nulla, le fa un tardivo ciao ciao con la manina; dopo un momento di alta tensione in cui il regno vacilla per l’imbarazzo, Queen Mary ricambia il gesto e la tribuna, sollevata, intona un God save the Queen. Se sei in grado di salutare in questo modo la regina, niente è impossibile.

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