MASTERS STORY – Connors inaugura l’era del Madison

Seconda tappa del viaggio nella storia delle ATP Finals. Quando il Masters prese dimora a New York.

Quella che segue è la seconda parte del nostro lungo viaggio nella storia del Masters maschile, attualmente chiamato ATP Finals (a cui da quest’anno va aggiunto il nome dello sponsor, Nitto). Per farlo ci siamo documentati scorrendo le pagine del libro di Remo Borgatti “Il Masters – Storia del più atipico dei tornei” edito da Effepilibri, che ci ha gentilmente concesso di riportarne alcuni passaggi, che metteremo in grassetto e in corsivo. Per gli amanti di numeri e statistiche, a supporto e completamento del libro, l’autore tiene un blog all’indirizzo https://mastersatp.wordpress.com/ in cui potrete trovare tutto ciò che manca, per motivi di spazio, nel libro.

Nella prima parte abbiamo passato in rassegna gli anni dal 1970 al 1974. In questa il quadriennio successivo.

1975 – Siamo ai primordi degli anni di Bjorn Borg e la capitale della Svezia diventa il centro nevralgico del tennis maschile di fine stagione. In pochi giorni la Kungliga Halle di Stoccolma ospita infatti sia il Masters che la finale di Coppa Davis, che vede impegnata la nazionale di casa contro la Cecoslovacchia di Jan Kodes. Il torneo dei maestri è “la sfilata conclusiva di una stagione che non ha avuto un vero leader, con quattro vincitori diversi nelle prove dello Slam e Jimmy Connors che, pur non avendone vinta nemmeno una, ha disputato tre finali.”

Il mancino di Belleville, sempre un po’ ribelle e poco incline a lasciare la fidanzata Chris Evert tutta sola in patria, rinuncia alla trasferta e il suo posto viene rilevato dal connazionale Solomon. Il protagonista principale della kermesse scandinava è, manco a dirlo, Ilie Nastase. Il tre volte maestro dei maestri ne combina di ogni sorta nella sfida del girone con Arthur Ashe e quest’ultimo, spazientito, lascia il campo pur trovandosi avanti 4-1 e 15-40 nel terzo set; al contempo il giudice di sedia squalifica il rumeno per condotta scorretta e la partita, in un primo momento, viene dichiarata persa da entrambi. Poi però l’americano verrà riabilitato e aiuterà Nasty a qualificarsi per le semifinali.

I tifosi svedesi hanno però maggiori attenzioni per quanto succede nell’altro gruppo, dove Vilas batte Borg e lo precede in classifica. Ma, come spesso succederà in questo torneo anomalo, una sconfitta non pregiudica nulla e può aiutare nell’accoppiamento delle semifinali: l’argentino finisce nelle fauci di Nastase, che lo travolge, mentre “Borg spezza l’incantesimo e torna a battere Ashe dopo quattro sconfitte consecutive, tra cui la finale del Masters WCT e il quarto di finale di Wimbledon.”

L’ultimo atto delude tutti tranne Nastase. Il rumeno spazza via Borg in appena un’ora e cinque minuti e mette in difficoltà anche la televisione svedese, che aveva preparato un palinsesto ad hoc per una sfida più lunga. Il rumeno coglie così la quarta vittoria nel torneo e questa sarà anche la sua ultima partecipazione.

1976 – Si torna negli States e, forse per contrapporsi alla WCT di Lamar Hunt – che ha la sua sede ideale a Dallas dove si giocano le finali -, il Grand Prix fa della Summit Arena di Houston il teatro del suo torneo di chiusura. Purtroppo, sia i vincitori di major della stagione (Edmondson, Panatta, Borg e Connors) che il campione in carica Ilie Nastase non sono della partita per motivi diversi e allora spazio agli outsiders.

“Il messicano Raul Ramirez può far valere la credenziale che, da leader della graduatoria finale del Grand Prix, gli ha fatto intascare la considerevole cifra di centocinquantamila dollari ma sul piano strettamente tecnico la superficie della Summit Arena sembra più adatta ai bombardieri americani Gottfried e Tanner o, in alternativa, al talento del giovane polacco Fibak.”

Gli incroci dei gironi, caratteristica che farà storcere il naso per decenni a più di un sostenitore che il tennis vero è quello dell’eliminazione diretta, mandano in semifinale Orantes, Solomon, Vilas e Fibak. Il mancino spagnolo lascia appena undici giochi al “sorcio maledetto” mentre l’altro match è assai più avvincente e Fibak lo fa suo 8-6 al quinto.

“Al quinto tentativo, finalmente accade che l’atto conclusivo sia la ripetizione di un match già disputato nel gruppo eliminatorio. E accade pure che l’esito della prima sfida venga ribaltato a distanza di qualche giorno.” Infatti, battuto nel girone da Fibak, Orantes disputa una finale tutta in salita e recupera due break nel quarto set, annulla sei palle del 5-6, domina il tie-break e infine vola nel quinto (6-1) avallando la previsione dell’attore Kirk Douglas che, intervistato in tribuna durante l’incontro, dichiara: “Chi vincerà? Fibak ha un bel vantaggio e sta giocando bene ma non puoi mai dire che Orantes sia battuto.”

1977 – Dopo sette anni da nomade, il Masters trova una collocazione stabile che lo aiuterà anche ad acquisire una identità più precisa e consolidata. Siamo nella “Grande Mela”, precisamente nella casa dei New York Knicks: il Madison Square Garden. “Ma il cambiamento di sede non è l’unica novità. Il Grand Prix ha un nuovo sponsor, la Colgate Palmolive (che non ha badato a spese pur di organizzare al meglio questo torneo), e soprattutto il Masters non è più l’appuntamento di chiusura di una stagione bensì di apertura di quella successiva.”

Si gioca infatti nella prima settimana di gennaio e ci sono tutte le migliori racchette del circuito. Il dominatore della stagione è stato Vilas (due slam e 15 tornei nel complesso, quasi tutti però sulla terra battuta) ma Borg e Connors sembrano più attrezzati sul sintetico di quanto non lo sia il sudamericano. Bjorn e Guillermo decidono, per calcoli speculativi sugli accoppiamenti delle semifinali, di non scendere in campo nei rispettivi ultimi incontri del round-robin in quanto già qualificati ma il giorno dopo, avversari in semifinale, trovano ad accoglierli uno “striscione polemico di due ragazze che, riferendosi al doppio forfait, hanno scritto: ‘Noi ieri eravamo qui, voi dove eravate?’.

Alla fine Borg la spunta agevolmente ma il torneo se lo prende Connors, autore di una finale in cui viene evidenziato una volta di più come nel tennis i punti (e i giochi) non abbiano tutti la medesima valenza: 6-4, 1-6, 6-4 lo score conclusivo. L’orso vince un game in più ma il trofeo lo solleva Jimbo.

1978 – Ci sono sei statunitensi, un messicano e un italiano e non è l’inizio di una barzelletta bensì del secondo Masters al Madison di New York. Borg e Vilas disertano il torneo pur essendosi qualificati, in segno di protesta per la nuova regola imposta dall’ATP che costringe i tennisti a un numero minimo di presenze per accedere al bonus di fine stagione. Connors invece c’è ma è afflitto da mille dolori e – a causa del regolamento introdotto dopo i forfait dell’anno precedente – quando si ritira nel secondo set contro McEnroe a causa di una vescica a un piede viene automaticamente escluso dal torneo.

Già, John McEnroe. Il mancino di Wiesbaden è la stella nascente del circuito, domina il suo gruppo e vola in semifinale dove se la vede con il connazionale Dibbs. Quest’ultimo, regolarista che però ha vinto in stagione anche sul duro – Cincinnati e Toronto – racimola appena cinque giochi mentre nell’altra sfida il “vecchio” Ashe prevale in tre set su Gottfried.

“All’afroamericano, pur meritando credito per quanto fatto vedere nella settimana del Madison, non era logico assegnare più di un 15% di probabilità di successo finale. Invece Ashe arriva due volte consecutive a un solo punto dal titolo” ma alla fine a spuntarla è McEnroe che salva il secondo match-point con un pizzico (forse più) di buona sorte e incamera il primo titolo importante in carriera.

Con questo abbiamo chiuso anche la seconda tappa del nostro viaggio. Appuntamento a venerdì prossimo, 20 ottobre, per il terzo appuntamento.

Prima parte: http://www.tenniscircus.com/circuito-atp/masters-story-gli-anni-di-nastase/

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