Maria Sharapova dice addio al tennis

L'ex n. 1 del mondo, icona del tennis femminile e vincitrice di cinque Slam, appende la racchetta al chiodo: l'annuncio in un articolo pubblicato da "Vanity Fair".

Maria Sharapova, icona di tennis e di stile, ha annunciato oggi il ritiro dal tennis, a 32 anni. La russa, ex n. 1 del mondo e vincitrice di 5 Slam, divenuta campionessa a soli 17 anni, con la vittoria di Wimbledon nel 2004 (battendo in finale Serena Williams, la tennista più forte di tutti i tempi), ha spiegato le motivazioni del suo ritiro in un lungo articolo pubblicato dalla rivista di moda e costume Vanity Fair, accompagnato da un video.

Qui la traduzione integrale dell’articolo:

“Come fai a lasciarti alle spalle l’unica vita che tu abbia mai conosciuto? Come ti allontani dai campi su cui ti sei allenata da quando eri una bambina, il gioco che ami – che ti ha portato lacrime indicibili e gioie indicibili – uno sport in cui hai trovato una famiglia, insieme ai fan che si sono radunati dietro di te da più di 28 anni? Lo so questo, quindi per favore perdonami. Tennis, ti sto dicendo addio.

Prima di arrivare alla fine, però, vorrei iniziare dall’inizio. La prima volta che ricordo di aver visto un campo da tennis, mio ​​padre ci giocava. Avevo quattro anni a Sochi, in Russia, così piccola che le mie minuscole gambe pendevano dalla panca su cui ero seduta. Così piccola che la racchetta che ho raccolto accanto a me aveva il doppio delle mie dimensioni. Quando avevo sei anni, ho viaggiato in tutto il mondo ed anche in Florida con mio padre. All’epoca il mondo intero sembrava gigantesco. L’aereo, l’aeroporto, l’ampia distesa americana: tutto era enorme, così come il sacrificio dei miei genitori.

Quando ho iniziato a giocare, le ragazze dall’altra parte della rete erano sempre più vecchie, più alte e più forti; i grandi del tennis che ho visto in Tv sembravano intoccabili e fuori portata. Ma a poco a poco, con ogni giorno di prove in campo, questo mondo quasi mitico è diventato sempre più reale. I primi campi su cui ho mai giocato erano in cemento non uniforme con linee sbiadite. Nel tempo, sono diventati terra battuta e l’erba più bella e curata su cui i tuoi piedi possano mai calpestare. Ma mai nei miei sogni più grandi non ho mai pensato di vincere sui palchi più grandi dello sport e su ogni superficie.

Wimbledon sembrava un buon punto di partenza. Ero un’ingenua diciassettenne, collezionavo ancora francobolli e non capivo l’entità della mia vittoria fino a quando non sono diventata più grande, e sono contenta di non averlo fatto. Il mio vantaggio, tuttavia, non era mai quello di sentirmi superiore agli altri giocatori. Si trattava di sentirmi sul punto di cadere da una scogliera, motivo per cui tornavo costantemente in campo per capire come continuare a salire. Gli US Open mi hanno mostrato come superare le distrazioni e le aspettative. Se non potevi gestire la confusione di New York, beh, l’aeroporto era accanto. Dosvidanya.

Gli Australian Open mi portarono a giocare in un posto che non era mai stato parte di me prima. Mi ha dato un’estrema fiducia, in una condizione che alcuni chiamano “in the zone”. Non riesco a spiegare bene, ma lì mi sono trovata bene.

La terra al Roland Garros ha messo in luce i miei punti di debolezza – in primis, la mia incapacità di scivolare sulla superficie – e mi ha costretta a superarli. Ce l’ho fatta, due volte [Masha ha vinto infatti il French Open in due occasioni, nel 2012 e 2014]; è stato bellissimo.

Questi campi hanno rilevato la mia vera essenza. Al di là dei servizi fotografici eleganti e dei bei completi da tennis, hanno messo in mostra le mie imperfezioni – ogni ruga, ogni goccia di sudore. Hanno testato il mio carattere, la mia forza di volontà, la mia capacità di incanalare le mie emozioni più grandi in modo che esse lavorassero per me, non contro di me. Dentro il campo, mi sentivo meno vulnerabile. Sono stata così fortunata a trovare un posto dove mi sentivo scoperta ma anche così a mio agio.

Una delle chiavi del mio successo è stata la mia decisione di non voltarmi mai indietro e non sono mai rimasta con le mani in mano. Ho continuato a lavorare, giorno dopo giorno. Ogni volta nella mia testa frullavano queste domande:

Hai fatto abbastanza – e anche di più – per preparati per il prossimo avversario?

Hai preso dei giorni di riposo: il tuo corpo ha perso lucidità.

Quel pezzo di pizza in più che hai mangiato? Meglio riparare con una sessione di allenamenti eccellente domattina.

Avendo imparato ad ascoltarmi e a comprendere queste voci, ho accettato rapidamente i segnali che mi avrebbero portato al ritiro. Uno dei primi arrivò agli Us Open, lo scorso agosto: circa 30 minuti prima di entrare in campo, stavo ricevendo un massaggio alla spalla. Gli infortuni alla spalla non erano nuovi per me: ho avuto diversi interventi chirurgici, il primo nel 2008, e vari mesi di riabilitazione. Quando entrai in campo e vinsi, sentii come se quella fosse una finale vinta, e non un semplice primo turno, un primo gradino verso la vittoria. Lo dico non per cercare compassione, solo per spiegare la mia nuova realtà: il mio corpo era diventato una distrazione.

Per tutta la mia carriera non mi sono mai nemmeno chiesta se ne valeva la pena. Alla fine, quasi sempre. La mia forza mentale è stata sempre la mia arma migliore: anche se l’avversaria era più forte fisicamente, aveva più fiducia, io non mollavo mai.

Non parlo spesso di quanto lavoro, di quanti sacrifici abbia fatto per riuscire, perché ogni atleta capisce il lavoro dietro il successo. Ma ora che inizio il nuovo capitolo della mia vita, voglio che tutti coloro che sognano di eccellere in qualcosa sappiano che i dubbi, i giudizi e i fallimenti sono inevitabili: si cadrà centinaia di volte, e il mondo ti vedrà cadere. Accettalo. Abbi fiducia in te stesso. Ti prometto che alla fine ce la farai.

Dando la mia vita al tennis, il tennis mi ha dato vita. Mi mancherà ogni giorno. L’allenamento, la routine quotidiana: la sveglia all’alba, io che mi allaccio la scarpa sinistra e poi la destra, che chiudo il cancelletto del campo prima di colpire la prima palla della giornata. Mi mancherà il mio team, i miei coach, i momenti passati con mio padre sulla panchina degli allenamenti. Le strette di mano – dopo una vittoria o una sconfitta – e tutte le avversarie, che mi hanno spinta a dare il meglio.

Guardandomi indietro, ora, capisco che il tennis è stata la mia montagna. Il mio sentiero è stato pieno di valli e deviazioni, ma la vista dalla vetta è stata incredibile. Dopo 28 anni e cinque Slam vinti, sono pronta a scalare un’altra montagna: competere in un altro tipo di terreno.

L’incessante ricerca di vittorie non finirà. Non importa quanto avrò da fare, mi dedicherò alle nuove sfide della mia vita con la stessa concentrazione, la stessa etica del lavoro, applicando tutte le lezioni che ho imparato nella mia vita. Nel frattempo, ci sono alcune piccole cose che non vedo l’ora di fare: un po’ di tranquillità insieme alla mia famiglia; oziare davanti a una tazza di caffé la mattina; viaggi improvvisati nel weekend; allenamenti e lezioni in libertà (danza, per esempio!).

Il tennis mi ha fatto vedere il mondo, e mi ha mostrato di che pasta ero fatta. Con esso mi sono confrontata e ho misurato la mia crescita. Così, qualunque cosa sceglierò di fare nel prossimi capitolo della mia vita, la mia prossima montagna, continuerò a spingere, continuerò a scalare. Sto crescendo ancora”.

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