Quel giorno a Parigi

Quando una palla sulla riga salvò Roger Federer e lo lanciò alla conquista del Roland Garros.

Va bene, non è una novità che ogni uomo sia sfaccettato e che contenga una, nessuna e centomila persone diverse, ed è forse per difenderci da questa verità un po’ scomoda che tendiamo sempre a semplificare e a ridurre ciò che vediamo a poche e basilari caratteristiche. Con i tennisti di solito viene benissimo: c’è quello che serve, quello che risponde, quello che attacca, quello che lotta e quello snob che non ma sporcarsi i calzini – poi quello che sbrocca, quello che sul più bello si fa prendere dall’ansia, quello che insomma se s’impegnasse un po’ di più, quello che non te lo spieghi cosa ci fa nella top 100 e chi più ne ha più ne metta.

E dopo c’è Roger. Uno di cui fai fatica persino a parlare, perché non basta il vocabolario, non basta l’immaginazione, non basta la ragione. Ricordo l’impressione di quando l’ho visto dal vivo: è Dio ma allo stesso tempo è mio fratello. È tutto e il contrario di tutto. Conosco alla perfezione la sua mimica, la sua andatura, i gesti e le cadenze, eppure mi sorprende in ogni movimento… una sorpresa però che non è mai stridente, anzi manifesta una profonda armonia con ciò che c’è intorno. Molti dicono che non sappia soffrire, e ne trovano la conferma nelle fragorose sconfitte inopinate che ne costellano la carriera, da Wimbledon 2008 all’Australian Open 2009, o New York di quell’anno. Poi altri tonfi da situazione di vantaggio (o addirittura con matchpoint a favore), senza spingersi troppo indietro mi saltano in mente nel 2018 Indian Wells con Del Potro, che ha prodotto un brutto strascico psicologico, Anderson a Wimbledon, e nella scorsa stagione negli stessi luoghi la sconfitta con Thiem e quella partita infernale con Nole ai Champioships. Ecco, tutto ciò contribuisce a creare l’immagine di un Federer che di fronte alle difficoltà rimane spiazzato, quasi incredulo, vittima del proprio talento superiore e di una sorta di snobismo verso la lotta che al momento buono lo tradisce e condanna. Effettivamente a volte Roger ha confermato quest’impressione, specialmente quando i problemi sono insorti a partita in corso sotto forma di blackout improvvisi e inaspettati. Avversari particolarmente resilienti e tignosi gli hanno reso la vita terribilmente complicata, per non parlare di mostri della mentalità come i due rivali di sempre, Djokovic e Nadal. Ma in fondo ci sono parecchie controprove utili a sfatare questo mito, basti pensare all’ultima gita australiana: la lotta contro Millman, i sette match-point annullati a Sandgren su una gamba sola, l’orgoglio di tenere il campo con Djokovic nonostante le condizioni menomate.

In questi tempi di digiuno in cui la cattività stimola i ricordi, mi è tornata in mente una partita clamorosa che dice tanto anche da questo punto di vista, oltre a essere un incredibile crocevia del destino.

Corre l’anno 2009 e la terra parigina se ne sta percossa e attonita alla notizia dell’eliminazione del tiranno di Spagna, Rafa Nadal, per mano di Robin Söderling. Il trono del Roland Garros è senza padroni, un’occasione unica per Roger. Ma si sa che in questi frangenti si rischia di pensare troppo in là e smarrire la dovuta concentrazione sul qui e ora. In questo stato d’animo l’elvetico scende in campo per gli ottavi di finale contro Tommi Haas, amico e giocatore dalla classe sopraffina, dotato tra le altre cose di un rovescio che rapisce la sguardo come pochi altri. L’ex numero due è in giornata e ne viene fuori un duello d’alta classe che evidenzia la tensione di Roger nei momenti decisivi e che lo porta sempre più vicino al baratro, sotto due set a zero (7-6, 7-5) e palla break a sfavore sul 4-3 Haas nel terzo: non è un matchpoint ma poco ci manca. È un solo quindici, ma vale un patrimonio. Arpionato quel punto con un dritto vincente sulla riga – per non parlare di quello che gli frutta il break nel game successivo dopo uno scambio da perdere la testa con lob e controlob – Roger si libera e fa suo il match con la fretta quasi violenta che a volte lo prende (dopo il 6-4 del terzo finisce 6-0, 6-2). Lo scettro di Parigi è più vicino. In quella partita convivono tante versioni di Federer, ci sono il nervosismo e la paura di vincere, poi la capacità di alzare il livello senza tremare a un passo dalla sconfitta, infine c’è il ritorno spietato e dominante, complice il calo dell’avversario.

La visuale odierna ribadisce l’importanza di quel match – e del dritto anomalo che lo ha ribaltato – perché apre la prospettiva sliding doors su una bacheca rogeriana zoppa e incompleta. In fondo – lo dimentichiamo per colpa della sua grandezza – stiamo parlando di uno che a Parigi ha giocato otto semifinali (l’ultima nel 2019, dopo aver saltato due intere stagioni sul rosso) e cinque finali, ma che alla fine ha rischiato di rimanere con un pugno di mosche – il motivo non stiamo nemmeno a citarlo, ma comincia per N e finisce con adal. Quindi se Roger ha completato il career Grande Slam lo deve alla propria resilienza a capacità di reagire alle avversità, troppo spesso sottovalutata. Oltre a un sentito grazie a Robin Söderling che non guasta mai.

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