Tennis a stelle e strisce: le ragioni di un declino annunciato

C’era una volta l’America tennistica; i grandi campioni, le leggende del tennis ed espressioni di una superpotenza che da sempre ha dominato sui campi in ogni angolo del globo. 32 Coppe Davis vinte, tanti numeri 1; eppure è ormai da molto tempo che lentamente, ma inesorabilmente, gli Stati Uniti conoscono il declino e la mancanza di campioni.
Oggi a rappresentare il tennis a stelle e strisce nei piani alti del ranking vi è il solo John Isner, spilungone della Carolina che, tra mille difficoltà, prova a tenere vivo lo spirito yankee in campo. Ma quali sono le ragioni di un tramonto per molti annunciato?
Non vi è dubbio che le risposte sono molteplici. Per decenni gli States hanno rappresentato il modello di riferimento tecnico, organizzativo ed economico cui far riferimento; ma, nonostante le svariate centinaia di milioni di dollari stanziati dalla USTA negli ultimi anni, non si riesce a tirar fuori nulla di meglio se non Isner che, nei tempi d’oro, probabilmente avrebbe fatto parte della squadra di Davis solo da riserva; o magari un Donald Young che fu designato quale suo erede nientemeno che da John McEnroe in persona. Poco, troppo poco.
Il meccanismo si è dunque inceppato e questo blocco è avvenuto in tutti gli aspetti da valutare per un’analisi globale della caduta dell’impero americano. Dal punto di vista tecnico sono stati sottovalutati i segnali provenienti da altre realtà tennistiche che nel decennio scorso si son fatte strada. Mentre la Spagna ed altre nazioni europee operavano una vera rivoluzione con l’adeguamento del gioco al rallentamento delle superfici, con l’avvento della difesa aggressiva, del tennis dove la resistenza fisica era asse portante per tenere scambi lunghi e duri «costruendo» il punto, del tennis dove il footwork assumeva un ruolo essenziale, negli States si procedeva con il solo serve and volley.
La mancanza di campi in terra rossa si sarebbe trasformata man mano nella mancanza di giocatori di alto livello, ed in un ritardo letale per far crescere su standard adeguati alla tradizione americana più d’una generazione di giovani tennisti. Ultimamente sono state intraprese iniziative per colmare questo gap, se è vero che il numero di campi in terra sta aumentando. Anche un totem come McEnroe ha ammesso che far crescere i ragazzi sulla terra crea giocatori completi.
Dal punto di vista organizzativo e quindi economico, inoltre, le cose non vanno meglio. L’attuale paradosso è che le multinazionali americane dominano il circuito economicamente ma non sportivamente; molto di ciò che circola dentro e fuori dai campi di tutto il mondo è Made in Usa, e l’Usta è una delle Federazioni più ricche del mondo; ma il problema è nel dove e come viene investito il denaro. Nonostante la presenza su tutto il territorio di strutture favolose e accademie, in apparenza, di primo livello, su tutte quella di Bradenton di Nick Bollettieri, il modello americano si è rivelato clamorosamente fallimentare. Le ragioni risiedono in questo caso nella diversa struttura che segue il giovane che si avvicina al tennis. Negli Usa infatti non si ha quella dimensione ristretta, “familiare” che ha portato alla luce talenti immensi come quello di Agassi o delle sorelle Williams; le famiglie cioè non hanno più tempo da dedicare all’allenamento quotidiano dei piccoli talenti. In questo modo i giovani, quando si affacciano nel mondo dello sport universitario, sono così carenti sotto il profilo tecnico che non riescono a raggiungere un livello degno degli standard internazionali. Dimensione familiare che ha fatto e continua a fare la fortuna dei paesi Europei ed, in parte, anche dei paesi sudamericani.
Il tennis poi, si sa, è sport faticoso e presuppone il possedere quel “fire inside” che è premessa per qualsiasi attività agonistica, specie individuale. Sembra che questo sacro fuoco non arda nelle giovani generazioni americane se, come sembra, sono invece gli sport di squadra, come basket e il baseball, a risultare più appetibili socialmente e come impatto mediatico, finendo col sottrarre al tennis un numero consistente di atleti, ed offrendo loro maggiori possibilità di successo e di guadagni più rapidi e consistenti. Inoltre manca un campione che faccia da traino, un fenomeno che spinga una moltitudine di giovani ad avvicinarsi al tennis e a proseguire con la carriera professionistica, in modo tale da aumentare le possibilità di rialzare le sorti del movimento.
Le Accademie istituite in fretta e furia, specie quella di Boca Raton, ispirate al modello spagnolo, non hanno dato i frutti sperati anche per un approccio, a quanto pare, troppo rigido e foriero di eccessiva pressione per i ragazzi , tanto da far partire denunce da parte di alcuni genitori preoccupati per gli effetti devastanti che tali metodi avrebbero avuto sul fisico e sulla psiche di alcuni ragazzi.
A tal proposito vi è da sottolineare che un bagno di umiltà sarebbe salutare.
Non sarebbe male se coach e preparatori atletici americani riflettessero sul fatto che trapiantare in toto un modello basato su culture e strutture sociali diversissime da quella yankee, e pretendere d’incanto lo stesso risultato è quantomeno azzardato se non addirittura deleterio. Qui gli aggiustamenti sono in corso, grazie a delle convenzioni stipulate dalla USTA con accademie di famose glorie del passato quale quella di Chris Evert, dove il modello strutturale seguito è stato adattato alla realtà americana.
E d’altronde per trovare un modello vincente non si dovrebbe guardare lontano, ma solo ai cugini canadesi ed agli eccezionali risultati che la loro politica di investimenti mirati sta ottenendo. Tante sono dunque le ragioni del declino dunque, e tanto il lavoro da fare. Per ora una intera nazione, con ben 30 milioni di praticanti, attende che qualcuno riempia il vuoto lasciato da Andy Roddick: ultimo americano a vincere uno Slam, ha ormai appeso la racchetta al chiodo da quasi due anni. Per il tennis americano di oggi la fine del tunnel sembra ancora molto, molto lontana.

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